Il reato di atti persecutori (c.d. stalking) ed il rapporto di amicizia

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Non sussiste il reato di atti persecutori se vi è un rapporto di confidenza e familiarità tra la persona offesa e l’imputato

Il c.d. stalking consiste in un insieme di condotte persecutorie e reiterate nel tempo, idonee ad “alterare le proprie abitudini di vita” e ad “ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata da relazione affettiva”, cagionando nella vittima “un perdurante e grave stato di ansia o paura”.

Il reato viene meno qualora tra la persona offesa e lo stalker esista un rapporto di amicizia tale da non provocare nella vittima le conseguenze indicate.

Così ha statuito la Suprema Corte di Cassazione Penale, con sentenza n. 36621/2019 che, a commento del tenore di un messaggio vocale inviato dalla persona offesa all’imputato, ha rilevato come la confidenza e familiarità manifestate dalla vittima nei confronti dell’imputato non dimostrano alcuno stato d’ansia o paura.

Le condotte persecutrici, infatti, oltre ad essere reiterate, devono cagionare almeno uno dei tre eventi previsti all’art. 612 bis c.p., sulla base della dimostrazione del nesso di causalità tra la condotta del soggetto agente e lo stato di ansia o paura scaturito nella vittima, dovendo il turbamento risultare in modo oggettivamente rilevabile.

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